Qualcuno lo ricorda come il ragazzino dai capelli biondi che nelle sere d’estate, al Torneo in villa, faceva un casino di domande e non si perdeva neanche una partita. Dopotutto è lì che è iniziata tutta la storia, su un campo di cemento, sotto il canto dei grilli, in un cielo d’estate e di pallacanestro.
E chissà se lo aveva previsto, il ragazzino, che qualche decennio più tardi si sarebbe ritrovato a fare l’allenatore. Probabilmente sì, perché se c’è una cosa che Francesco sa fare più degli altri è guardare oltre, stare sempre un passo in avanti. Se dovessimo disegnarlo nei panni di un supereroe della Marvel, il suo potere sarebbe proprio questo: la capacità di proiettare la realtà dove gli altri vedono solo macchie confuse e grigiastre. Altro che ragnatele filanti, forza distruttiva e dono dell’invisibilità. Lui l’invisibile lo sa vedere e ci sa fare i conti. Che è poi l’arma segreta di ogni timoniere, la forma d’arte in cui si manifesta la capacità di guidare.
L’allenatore non è una professione come le altre, una di quelle che si possono ascrivere ad una categoria precisa di professionisti. L’allenatore è un po’ un personaggio trasversale, uno che travalica i limiti del campo semantico strettamente correlato al proprio lavoro e sconfina, si perde nella miriade di attributi che deve portarsi dietro come appendice necessaria per svolgere il proprio ruolo: tecnico, psicologo, stratega, insegnante, confidente, motivatore. In un bel romanzo d’avventura sarebbe quello con giacca e cannocchiale che chiamano “capitano”, che guida l’equipaggio e naviga anche con le vele a brandelli. Nella realtà è uno che mastica la polvere delle palestre e disegna schemi su pezzi di carta. Forse meno romantico come personaggio, ma non per questo meno eroico.
Francesco fa l’allenatore, ma con lo scalpellino in mano. È uno scultore attento e scrupoloso, che lavora il materiale grezzo per ricavarne sempre il meglio. Francesco è un perfezionista, e lo è forse proprio a causa del lascito di quel ragazzino biondino che tormentava i più grandi con le sue domande. Domande che non ha mai smesso di porsi, ma a cui crescendo ha anche dato delle risposte. È uno che dedica gran parte delle sue giornate, e di conseguenza della sua vita, ai ragazzi che allena. Gli stessi che ha visto crescere e che sono diventati un po’ parte di lui, gli stessi che ha sgridato e ha difeso e che protegge e tutela. A casa spulcia materiale video che analizza con zelo instancabile, in palestra urla e suda e cerca di tenere assieme tutti i pezzi. È uno che non molla mai, non esiste. Ostinato, resistente, caparbio. E sempre un passo avanti. Francesco è quello del noi al posto dell’io, una prerogativa non per forza così scontata in un ambiente in cui si consolida sempre più l’egemonia delle prime persone singolari.
È nel noi che sta a suo agio ed è il valore di squadra che più di tutto cerca di trasmettere. L’appartenenza. Il vincolo. I legami. Un’idea. Perché non crederete mica che siano gli schemi, la tecnica o le disquisizioni tattiche a smuovere le montagne? Questi sono solo strumenti, è l’idea che più di tutto muove e trascina. Ed infatti Francesco è un coach di quello stampo lì, concreto e realista, ma allo stesso tempo visionario e idealista. Un sognatore con gli occhi aperti, i piedi per terra e lo sguardo oltre. Il potere degli ultimi romantici.
Tutti, con un po’ di studio e un buon bagaglio di esperienza, possono diventare allenatori, ma la vera sfida, quella che traccia il solco profondo tra verità e impostura, è esserlo. Incarnarlo. Viverlo. Sentirlo bruciare dentro.
E Francesco lo è, come estensione del suo io, con la stessa curiosità tenace e innocente di quando era bambino. E lo incarna e lo vive e lo sente bruciare dentro. E non perché sia un allenatore vincente e basta, e neanche perché sotto le sue mani escano giocatori belli e fatti, tutt’altro. È solo perché è una di quelle rare persone che, a parlarci e a starci a contatto, ti viene sempre voglia di tirare fuori tutto il meglio che hai dentro.
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